
PERSONAGGI ILLUSTRI
Bagolino ha visto nascere condottieri e soldati, religiose e religiosi, ha nutrito imprenditori e patrioti, ma anche artisti, scrittori e scienziati. Di qualcuno si conosce il volto e l’abito, le opere e i meriti, altri sono troppo remoti o dalle tracce troppo labili.
Qualcuno è stato famoso nel suo tempo, ha ricevuto onori e ottenuto gloria. Altri hanno lasciato un ricordo controverso. Tutti però, proprio tutti i bagossi sono personaggi tali che hanno lasciato un segno, anche quelli che non hanno raggiunto la fama o il potere.
Se oggi i boschi sono folti e i prati verdi, lo si deve a ignoti lavoratori e lavoratrici della terra e del bestiame che, un secolo dopo l’altro, si sono presi cura della natura che ha dato e dà tuttora da vivere e prosperare. Se non trovano posto nei libri di storia i maestri, i professori, i sacerdoti che hanno insegnato ed educato una generazione dopo l’altra, mantengono però un posto sicuro nella memoria di chi li ha conosciuti.
Se non sono tuttora celebrati gli imprenditori del ferro, gli artigiani del legno, le sarte e ricamatrici, i musicisti e gli amministratori, è rimasto nel paese il segno del loro operare.
FIORAVANTE MORESCHI
Nato a Bagolino nel 1500 in seno alla famiglia Moreschi, fedele alla Serenissima Repubblica di Venezia. Orfano da ragazzo, se la cava lavorando come aiuto fornaio ma ben presto lascia il paese in cerca di un destino migliore. A Roma si arruola nell’armata pontificia. Notato per l’audacia in duello dal papa Paolo III, comincia così una brillante carriera, sostenuta da un forte impegno negli studi e da una efficace oratoria. Nel 1546 è a capo del contingente papale inviato a soccorso dell’imperatore Carlo V in guerra con la protestante Lega di Smalcalda. Il 25 aprile 1547 si distingue nella battaglia di Mühlberg, costringendo alla ritirata i luterani. Secondo una tradizione, fa prigioniero il loro condottiero, il duca Giovanni Federico di Sassonia, che però rifiuta di consegnarsi a un plebeo e si arrende soltanto a un ufficiale suo pari, il conte Ippolito da Porto Vicentino.
Dopo la fine della guerra è a capo delle truppe pontifice di stanza a Bologna, da dove il servita Giovan Pietro da Rovato fa pervenire al parroco di Bagolino, don Lorenzi, qualche informazione sul concittadino illustre: oltre allo “splendidissimo equipaggio concesso al grado”, Fioravante tiene “sedici cavalli grossi di rispetto al suo servizio”.
Dopo aver ancora una volta combattuto al servizio di Ottavio Farnese, duca di Parma, intorno al 1560 abbandona la carriera militare. Si stabilisce a Goito, dove morirà il 12 aprile 1567, sepolto nella parrocchia con una lapide in latino, dettata dal padre Serafino di Bagolino, che ne enumera i meriti acquisiti durante la brillante carriera militare dalla parte della cattolicità, agli ordini dei due papi Paolo III e Giulio II, nonché dell’imperatore Carlo V. Una lapide è apposta anche nella parrocchia di Bagolino, nell’atrio di una porta laterale, che lo descrive come forte cavaliere e invita a piangerlo.
In vita non dimentica il suo paese d’origine, se nel 1555 interviene con il peso del suo prestigio per liberare i bagossi che si trovavano in prigione a Trento dopo l’uccisione nel 1554 dei conti Achille ed Ottone di Lodrone.
Nel 1987 Silvio Carnevale ha ritrovato a Mantova il testamento di Moreschi: alla moglie «Magnifica Domina Paula» assegna l’usufrutto dei beni e ai due figli «legittimi et naturali» una terra arativa e con viti, oltre alla somma in denaro di 193 ducati. All’Ospedale Maggiore di Mantova elargisce «soldi cinque piccoli mantovani».

BEATA LUCIA VERSA DALUMI
La Beata Lucia nasce a Bagolino, figlia di Giovanni e di Maria Versa Dalumi intorno all’ultimo decennio del Quattrocento. La famiglia è una delle più importanti e ricche del paese, dove la devozione è intensa e sentita. È forse da un predicatore quaresimale che Lucia viene ispirata e attirata alla vita monastica. Ha circa quindici anni quando un’apparizione della Madonna le suggerisce di dedicarsi alla contemplazione e alla vita spirituale.
A ventisei anni fonda il suo primo monastero, poco più di un ricovero, che si affaccia dall’alto sull’abitato, contro la volontà dei familiari perché «essendo anco sola non conveneva per conservare l’onore appresso a Idio e al mondo» come scrive il suo biografo Pietro Bassignano.
Viene perciò rinchiusa in casa, fino a quando non trova una compagna nella giovane Maffea de Macinata «divotissima della Beata Vergine» e pronta a dividere con lei la scelta monastica. Intorno al 1515, il convento consiste in poche assi e una tettoia, dove le due fondatrici sopravvivono grazie alle elemosine, mentre si cibano di erba e castagne.

Un’altra apparizione della Madonna invita Lucia ad aggregarsi all’Ordine dei servi di Maria, che ha parecchi seguaci nell’area bresciana. Nel frattempo altre pie donne si uniscono a loro, incuranti delle critiche di chi vede uno scandalo in quel consesso di donne sole.
Lucia va a Brescia e dopo una prolungata trattiva con i superiori dell’Ordine, che comporta anche visite e ispezioni a Bagolino dei padri serviti, si stabilisce che il paese «era luogo ben abitato e idoneo per formarvi un convento».
Poiché la parrocchia di Bagolino dipende dalla pieve di Condino e quindi dal principe vescovo di Trento, occorre ottenerne l’autorizzazione, che è presto elargita.
Comperato il terreno nel luogo del primo ricovero, le ormai cinque monache iniziano a costruire la chiesa e il convento. Nel 1518 le consorelle diventano dodici e nel 1520 a loro si aggiunge Maria Adeodata Regoli, giovane di buona famiglia di Idro. L’incrollabile fede di Lucia è approdata allo scopo che si prefiggeva grazie alla prima apparizione della Madonna: fondare un luogo di ritiro, preghiera, devozione.
La chiesa verrà consacrata nel 1561, parecchio tempo dopo la morte della Beata e dedicata a Santa Maria della Pietà.
La fermezza di Lucia diventa leggenda: si racconta che, durante un viaggio a Brescia, cade da cavallo e subisce la frattura di tutte le due le gambe.
Convinta che la caduta sia opera del demonio, deciso a intralciare il progetto del monastero, Lucia pretende di proseguire il viaggio legata alla cavalcatura.
Di nuovo, durante l’incendio che devasta Bagolino nel 1779, corre voce di un miracolo operato da Lucia: quando bruciano le mura e gli interni del convento, ecco che compaiono le figure di Lucia e della consorella Maria Adeodata che respingono le fiamme e il fuoco si estingue.
Il ricordo di questa donna tenace nella fede, scomparsa il 20 o 23 settembre 1524, rimane vivo nei secoli a Bagolino. Il convento ha attraversato vicende alterne: è soppresso nel 1797 all’arrivo dei francesi e le suore sono cacciate. Restaurato e riaperto dopo il 1808, diventa ospedale, orfanotrofio, ospizio dei poveri.
È tuttora al suo posto, sia pure dopo aver cambiato funzione, ma sempre al servizio della comunità, dei deboli, dei malati, dei bisognosi. Il progetto di devozione e sacrificio perseguito dalla Beata Lucia è ora una Casa di riposo, rinomata ben oltre i confini del Comune, e oltre quelli della valle Sabbia.
ARCANGELO DAGANI
Nato a Bagolino nel 1670 con il nome di Giovanni Piccinino Dagani, si fece frate francescano a Cles nel 1686. Teologo e filosofo, era un predicatore itinerante apprezzato. Nel 1706 viaggiava per la Toscana, visitando diverse città. Durante la navigazione tra Genova e Livorno nel 1709, catturato dai pirati, fu condotto a Tunisi e rinchiuso per due anni e mezzo, fino al riscatto pagato dai parenti e dai religiosi dell’ordine della Mercede.
Riprese la predicazione lungo la penisola italiana, per tornare a Bagolino nel 1713. Dal paese natale visita con la sua eloquenza vari centri della zona meridionale dell’impero asburgico, tra i quali Arco, Riva, Trento e Rovereto dove, nel 1717 contribusce all’allestimento di una Via Crucis con tredici croci in legno alla Madonna del Monte, da lui benedetta, corredando con un libro, da lui firmato (ora scomparso) la pratica della via Crucis.
Nel 1730 è a Venezia, per predicare poi la Quaresima a Conegliano. Nel 1732 è vicario a Pergine in val Sugana, guardiano a Borgo due anni dopo e nel 1736 a Campo. Tra il 1737 e il 1739 soggiornava al convento di Arco e più tardi di nuovo a Pergine.
Malato di asma, curato e guarito a Trento, si ammalava di nuovo poco dopo, morendo a Arco il 21 luglio 1741

ORSOLA VERSA DALUMI

Orsola nasce a Bagolino nella facoltosa famiglia dei Versa Dalumi. Il padre Lazzaro è fra i tre maggiori produttori di ferro della valle Sabbia. Nel 1764 sposa Giuliano Materzanini, imprenditore minerario e metallurgico di Vestone, dove Orsola si trasferisce.
Nel 1779 nel tragico incendio di Bagolino muoiono gli ultimi esponenti della famiglia: lo zio di Orsola, il fratello Giovanni e la sorella Lucia. Orsola è l’unica sopravvissuta e chiede al Comune di Bagolino di subentrare nella concessione per l’uso del forno fusorio, ma la risposta è negativa. Orsola è considerata ormai “forestiera” in quanto abitante a Vestone.
In realtà Bagolino intende tutelarsi dall’ingresso, attraverso l’ultima dei Dalumi, di un imprenditore potente e dinamico, al centro di relazioni d’affari nella provincia come è Giuliano Materzanini.
La contesa dura per anni, tra piccole concessioni per l’uso del forno e rinnovate liti per sbarrare la strada a una possibile concentrazione di potere e affari. Bagolino è ferma nel tutelare la propria autonomia e impedire l’ingerenza di forestieri, così come dettato dagli Statuti, Orsola è determinata a far valere i suoi diritti in quanto unica erede dei Dalumi.
GIUSEPPE MORA
Giuseppe Mora, sacerdote, nasce a Capo di Ponte in valle Camonica, in una famiglia agiata, proprietaria di boschi confinanti con le terre bagosse. Dopo essere stato curato a Brescia, nel 1772 è nominato dal Comune alla carica di curato per dieci anni.
A Bagolino, che fa parte della Repubblica di Venezia, la chiesa dipende però dall’arciprete della Pieve di Condino, in seno alla diocesi di Trento. I due borghi sono distanti e le strade impervie e spesso impraticabili, perciò un curato in paese è indispensabile.

Prevale l’uso che il Comune di Bagolino ne arruoli uno a sua scelta, gli garantisca uno stipendio e si interessi tanto da vicino all’operato del sacerdote da configurare un’ingerenza del potere laico nella sfera religiosa.
Mora è un giovane spigliato, dalla parola pronta e libera, piace ad alcuni ed è inviso ad altri. Tra questi ultimi, i preti del paese che lo giudicano male «per quel suo temperamento invadente e polemico, pronto all’attacco e insofferente delle controffensive» scrive Livio Dionisi, storico delle vicende bagosse.
Prende l’iniziativa audace, estranea ai suoi compiti, di chiedere alla Reggenza veneziana di staccare la chiesa di Bagolino dalla diocesi di Trento. È rimproverato dai superiori, irrita il pievano di Condino e allarma la diocesi trentina. Il vescovo Vigilio Thun apre un’inchiesta, che affida all’arciprete di Condino.
Nasce una contesa politica e giudiziaria che divide i bagossi e si trascina negli anni, fino a quando un decreto vescovile parte da Trento e arriva a Bagolino nel 1778: Mora è sollevato dall’incarico di curato.
È una decisione che non porta la pace in paese, i due partiti si scontrano ripetutamente, in particolare sulla scelta del successore, che dura a lungo, fino a quando interviene il doge di Venezia in persona, Alvise Mocenigo, che sollecita il podestà di Brescia a intervenire, obbligando il Comune a nominare un nuovo curato, che sarà Giovani Battista Portesi.
La leggenda vuole che don Mora lasci il paese in un giorno di pioggia, lanciando una maledizione ai parrocchiani: «Io me ne vado con l’acqua, voi ve ne andrete con il fuoco». Tali parole sarebbero state ricordate più tardi come un monito sinistro: nella notte tra il 30 e il 31 ottobre 1779 Bagolino subisce un tragico incendio.
Il 22 marzo 1785 il vescovo di Brescia, monsignor Giovanni Nani, annuncia che, ai sensi dell’accordo raggiunto tra la Serenissima Repubblica di Venezia e Sua Maestà l’imperatore Giuseppe II d’Asburgo, Bagolino lascia la diocesi di Trento per essere inclusa in quella di Brescia. Da questa, d’ora in poi, dipenderà la comunità cattolica del borgo.
- link: http://brixiasacra.it/PDF_Brixia_Sacra/Anno 1957_MemorieStoriche/XXIV (1957)_monografie_51_fasc2.pdf
- Livio Dionisi, L’incendio di Bagolino, Zanetti editore, 1979
CARLO BUCCIO
Nasce a Bagolino nel 1741 e si laurea in medicina all’università di Padova. Dopo aver effettuato un tirocinio a Verona, rientra nelle sue montagne. Esercita la professione in diverse località delle valli bresciane, tra le quali Sarezzo e Lumezzane, ma soprattutto a Bagolino.
È uno studioso, un osservatore attento delle condizioni di vita in montagna, un critico della scadente e povera alimentazione dei contadini. Nello stesso tempo si tiene aggiornato sui progressi della medicina che, sul finire del secolo XVIII, investono l’Europa intera, grazie all’avvento del principio sperimentale, al di là dei pregiudizi e delle tradizioni. È particolarmente interessato agli effetti terapeutici dell’elettricità, che applica nella sua pratica professionale.
Per il suo vasto sapere è socio dell’Ateneo di Brescia e dell’Ateneo di Salò. Scrive una Storia di Bagolino, dettagliata e puntigliosa quanto ricca di informazioni. Muore nel 1824.
GIOVANNI MARIA CRESCIMBENI
Nato a Vobarno nel 1796, è dotato di una vasta cultura che lo conduce dapprima a insegnare religione e filosofia al Seminario di Brescia. Ma la sua vocazione pastorale e una profonda sollecitudine per i diseredati lo portano altrove: dal 27 marzo 1829 è inviato come prevosto a Bagolino dove, impressionato dalla povertà e dalle sofferenze della popolazione, si impegna a migliorarne la condizione.
È un momento di scelte importanti per gli abitanti di Bagolino: intorno al 1830 riprendono i lavori di bonifica del pian d’Oneda e sul finire del decennio spetta al Comune di Bagolino di fissarne la destinazione: assegnare i lotti di terreno ai più poveri o venderli a chi dispone di denaro? Il segretario comunale Francesco Cosi è alleato con certi personaggi abbienti e spregiudicati del paese come i “mercanti di ferrarezze”, quelli cioè che si sono arricchiti con il commercio del ferro.
A quanto si dice, Cosi è istigato dalla moglie Anna Gandoni. D’accordo con i “mercanti di ferrarezze, i due attuano un colpo di mano: è indetta un’asta, giustificata con la necessità di rimpinguare le casse comunali, proprio durante la stagione dei lavori agricoli, quando i contadini sono sparsi nelle rispettive cascine in montagna e non possono intervenire.

I pochi che si trovano in paese non osano opporsi. I terreni vanno così ai ricchi a scapito dei poveri, al contrario di quello che auspicava il prevosto Crescimbeni. Esplode lo scontento, il paese è in rivolta, inizia una guerra civile tra tumulti e risse del popolo spossessato da una parte, e dall’altra violenze, beffe atroci e calunnie rivolte al sacerdote.
Tra il 1839 e il 1840, Crescimbeni difende ostinatamente la sua idea di giustizia sociale, la terra del Pian d’Oneda deve essere concessa ai poveri. Per il segretario Cosi e i suoi alleati è necessario invece cacciare il sacerdote da Bagolino. Contro di lui la cricca dei ricchi monta un’accusa infamante, sostenuta dalla testimonianza di “tre maliarde meretrici”, “tre donne infami e disonorate”, come si legge nelle memorie di Giovanni Rinaldi di Darzo. L’accusa è accolta senza obiezioni dal vescovo di Brescia, monsignor Domenico Ferrari, che si prepara a sollevare Crescimbeni dall’incarico e di consegnarlo al tribunale della Santa Inquisizione.
Il prete ne è sconvolto, invia a Brescia un amico, Bernardo Panelli, che convince della sua innocenza il vescovo, e si accinge a ripartire per Bagolino con il documento firmato dal prelato che sospende la decisione precedente. Lungo il cammino che risale la valle Sabbia Panelli scopre che il suo bestiame è malato di un morbo epidemico detto “palmonera” e decide di non proseguire.
È troppo tardi, a Bagolino Crescimbeni è precipitato nella depressione, vaneggia e non è più in grado di affrontare neppure i consueti compiti pastorali. Il 9 marzo 1840 si spara un colpo di pistola in bocca. Alla notizia della sua morte il paese è in tumulto. L’abitazione dei Cosi – che nel frattempo si trova a Brescia con la moglie Anna – è devastata e qualcuno promette che “farà a pezzi” il segretario comunale non appena ritorna in paese. Avvertito sulla strada del ritorno, Cosi e la moglie si fermano e non torneranno più a Bagolino.
L’11 marzo 1840 al funerale di Crescimbeni – osteggiato, secondo il racconto di Rinaldi, da “alcuni preti troppo sofistici” che vorrebbero il suicida sepolto in terra sconsacrata – si raduna una gran folla, “uno spettacolo compassionevole si offerse ai circostanti e fu questo il pianto universale di tutta la popolazione”, tenacemente unita all’amato sacerdote.
A Crescimbeni è dedicata la santella dell’Arciprete (Cäpötèl del Arseprèit) in località Valalös sul monte Telegrafo.
ANGELO GATTA

Nato a Borgo San Giacomo nel 1804, è ordinato sacerdote nel 1831 e, dopo la cura di diverse parrocchie della diocesi, nel 1841 arriva a Bagolino. Il paese è ancora segnato dalla tragedia di Giovanni Crescimbeni che, colpito dalle calunnie, si è suicidato. Gatta è un uomo energico, accusato talvolta di autoritarismo, ma molto attento ai bisogni della comunità e pronto nelle decisioni, tanto che è noto come “padre dei poveri”.
Riferisce lo storico ottocentesco Bortolo Scalvini che «cominciò a proteggere i poveri e a correggere i ricchi», irritando i notabili. A seguito della carestia del 1847, che colpisce l’intera Europa, ottiene dalle autorità austriache l’esenzione dalle tasse e denaro contante per i più poveri; avvia e porta a termine la costruzione di due strade: una che collega la parrocchia al cimitero, l’altra completa un’opera già iniziata nel 1817 da don Giovanni Battista Serioli, la cosiddetta “strada della fame” che scende al pian d’Oneda, procurando lavoro e salario ai bisognosi.
È tenuto d’occhio dalle autorità austriache per la sua indipendenza, per la capacità di prendere decisioni autonome e soprattutto per i sentimenti patriottici.
Nel 1848, quando arriva in valle la colonna di volontari partiti da Milano e diretti a Trento, don Gatta è spinto ad agire dai municipali, che sperano così di liberarsi dello scomodo prete. Gatta mostra un singolare talento militare, organizza circa 600 bagossi armati, combattenti volontari per l’Italia libera, che si aggregano al Corpo dei volontari comandato dal generale Giacomo Durando.
Il 27 aprile 1848 i suoi soldati difendono il confine del Caffaro dalle truppe austriache che incalzano la ritirata dei volontari, i quali poco prima avevano raggiunto Stenico ed erano stati poi respinti fino al confine di Ponte Caffaro, che segnava allora il limite tra l’Impero asburgico e il Regno lombardo veneto. Per i volontari stanchi e digiuni fin dalla partenza da Brescia, Gatta dà ordine che siano distribuiti pane e formaggio, perché non dimentica la carità cristiana. Per queste imprese Durando gli conferisce il grado di colonnello, mentre è definito beffardamente dagli austriaci “il generale”.
La partecipazione attiva alla guerra del 1848 lo costringe a riparare esule in Piemonte. Dopo varie peregrinazioni, e mentre la popolazione di Bagolino pretende il suo ritorno, nel 1849 Gatta torna a Brescia, momentaneamente liberata dagli austriaci. Dopo la fine della guerra e il ripristino della dominazione austriaca, ottiene il perdono e nel 1850 gli viene affidata la parrocchia di Offlaga, dove morirà nel 1876.
FAMIGLIA ZANETTI CARENÈT

Giovanni Battista Zanetti
Giovanni Battista Zanetti, nato a Bagolino intorno al 1770, figlio di Stefano, è l’artefice di molte delle fortune della famiglia che, proprietaria di boschi e cascine, è attiva nella produzione di carbone di legna e concessionaria nell’uso del forno fusorio.
Giovanni acquisisce nuove proprietà grazie all’alienazione dei beni ecclesiastici in età napoleonica e dispone di un patrimonio valutato a circa 300 mila lire austriache, piuttosto notevole in un borgo di montagna, benché Bagolino sia una comunità prospera.
Nel 1823 è deputato comunale, massima carica nell’assetto amministrativo del Regno lombardo veneto; in questa veste accoglie a Bagolino l’arciduca Ranieri d’Asburgo, viceré del Lombardo Veneto, venuto per la posa della prima pietra del ponte di Prada.
Poco prima della sua morte, che avviene il 19 ottobre 1835, è raffigurato in un ritratto a olio del pittore camuno Domenico Faletti, che godeva all’epoca di una certa notorietà.
Erede del patrimonio è il nipote Giovanni che prosegue l’attività del carbone e del ferro, e apre una segheria a valle della fucina, che dà in gestione al fratello Martino. Sposa Agnese Pelizzari Retec, stringendo così un’alleanza con una famiglia influente nella comunità.
Stefano Zanetti
Stefano, primogenito di Giovanni e Agnese, nasce nel 1845. È un esponente della borghesia valligiana dinamica e modernizzatrice che coltiva gli ideali risorgimentali e auspica uno Stato moderno, un’amministrazione efficiente ed equa e un sistema legislativo rinnovato.
Può contare sulle risorse di famiglia, quindi va a studiare giurisprudenza a Padova dove si laurea nel 1869 per intraprendere poi la professione di notaio. Sposa Domenica Pelizzari, figlia di un prospero proprietario di mulino a Ponte Caffaro e, una volta consolidato nella professione, si dedica alla politica come liberale e laico. Presiede brevemente la Congregazione di carità di Bagolino, con il proposito di un riordino. È eletto consigliere comunale, poi consigliere provinciale; entra nella Deputazione provinciale, dove siede accanto a Giuseppe Zanardelli, con il quale stringe un’amicizia personale, destinata a durare per la vita.
La loro consonanza di idee e propositi, dove Stefano è costantemente a fianco di Zanardelli, a volte in contese molto aspre con i reazionari e clericali, si esplica in iniziative politiche e alleanze elettorali fino a quando, verso la fine del secolo, prevalgono nella valle i loro avversari.
Difende la piccola proprietà assai diffusa in montagna, lavora a un progetto di riforma della legge forestale, caldeggia l’idea di un collegamento ferroviario della valle Sabbia con Brescia e Trento e nel 1891 è contrario alla soppressione della Pretura di Bagolino, dove è sindaco dall’anno precedente.


Gian Luca Zanetti
Gian Luca Zanetti nasce nel 1872, frequenta a Brescia il Collegio Peroni e prende la maturità da privatista al liceo Arnaldo da Brescia; studia alla facoltà di giurisprudenza a Pavia, dove si laurea nel 1896, dopo aver trascorso un semestre di studio a Monaco di Baviera. Profondamente religioso ma avverso al clericalismo, è attratto dagli studi letterari ma intraprende la professione di avvocato a Milano, città che lo ha colpito fin dal primo momento per il dinamismo e la capacità di innovazione. Diventa avvocato commercialista tra i primi di Milano, con uno studio a Roma e una clientela dove spiccano i grandi nomi dell’industria. Attento al rapido cambiamento del tessuto economico e sociale italiano, non dimentica le necessità di Bagolino. È appassionato dal sistema cooperativo, che ha visto all’opera in Germania, e lo considera una realistica via d’uscita dalla povertà e dall’isolamento della montagna. Sposa nel 1904 Valeria Betti di Sanguinetto, amatissima, dalla quale avrà sette figli.
Come il padre Stefano, coltiva amicizie nell’ambiente dei patrioti trentini, in particolare con Silvio Parolini, che sarà il primo sindaco di Condino italiana nel 1919. Nel 1915 si schiera con gli interventisti democratici; nel 1917 compera il quotidiano milanese La sera con il proposito di rivolgersi a un’opinione pubblica “libera e illuminata”, informata sulle decisioni politiche e incoraggiare chi si batte al fronte.
Costruirà accanto al quotidiano la casa editrice Unitas, che pubblica libri di narrativa e saggistica, nonché tre riviste nello stesso proposito di illuminare le menti.
Sempre attento alla tutela della popolazione e del territorio di Bagolino, ingaggia in quel periodo una battaglia contro le grandi società elettriche, che si servono delle acque di montagna per il profitto e senza alcuna considerazione dei comuni, proprietari di quelle acque.
Nel 1924, quando Mussolini si appresta a annientare l’opposizione e instaurare la dittatura, è costretto a cedere la proprietà e la direzione della Sera e di seguito anche la Unitas.

Di salute non robusta fin dall’infanzia, sfibrato dalla mole di lavoro, straziato dalla morte precoce di Valeria e vinto dalla prepotenza fascista, muore nel 1926 “libero nella dottrina di Gesù Cristo” e fedele ai principi della famiglia d’origine, come scrive nel testamento.
Nei suoi figli sopravvive lo stesso amore per Bagolino, lo stesso spirito di solidarietà sociale, la sensibilità per gli studi letterari e scientifici. Ginevra è un’apprezzata giurista all’università di Sassari, una storica del diritto e delle vicende di Bagolino, dove fa riscoprire gli ormai dimenticati affreschi di Pietro da Cemmo in San Rocco. Stefano, avvocato, insieme ai fratelli Matilde, Laura e Goffredo, al cognato Mario Boneschi, costituisce nel 1943 la brigata partigiana Monte Suello, che li vede a fianco, tra gli altri, a Mario e Sandro Bordiga e a numerosi uomini e donne di Bagolino, nonché ai fratelli Pelizzari Retec, Claudio, Silvio, Graziosa e Guido, uniti nella difesa della libertà e nella conquista della pace.
fonti:
Barbara Boneschi, Gian Luca Zanetti dall’avvocatura al giornalismo e all’editoria, Franco Angeli, Milano, 2012
link:
- per Gian Luca Zanetti: https://www.bibliotecamai.org/larchivio-di-gian-luca-zanetti-1872-1926/
- per Laura Zanetti: http://www.metarchivi.it/dett_fondi.asp?id=907&tipo=fondi (per il fondo Laura Zanetti)
- biografia di Laura Zanetti: https://journals.francoangeli.it/index.php/icoa/article/view/11884/914
- per Ginevra Zanetti: https://it.wikipedia.org/wiki/Ginevra_Zanetti
FAMIGLIA PELIZZARI RÈTEC
Famiglia di Bagolino, le cui origini sono note dal XV secolo e che dalla metà del XVIII inizia a utilizzare il soprannome Retec. Molti suoi esponenti ricoprirono ruoli importanti all’interno della vita della comunità, dando ad essa notai, avvocati e religiosi.
Prosperò fino alla notte del 30 ottobre 1779, quando il paese fu devastato da un terribile incendio e molti suoi membri perirono in quella tragica circostanza. In pochi si salvarono: tra questi si segnalano il notaio Andrea, che andrà a Venezia a chiedere aiuti e a testimoniare le drammatiche condizioni della popolazione, insieme al reverendo Gian Battista Portesi e al conte Durante Duranti. Il doge accolse la supplica; i beni raccolti furono distribuiti alla popolazione dai deputati di Bagolino Andrea Pelizzari e Nicolò Zanetti.
Alla caduta della Serenissima Repubblica e all’arrivo dei rivoluzionari francesi la famiglia si schierò con i controrivoluzionari fedeli alla Serenissima, dando a costoro il capitano Faustino. Suo figlio, il reverendo Andrea, trascorse una vita dedicata alla beneficenza verso i bisognosi e, tenuto in grande considerazione, si spense nel 1830 al ricovero del paese per sua scelta ultimo tra gli ultimi.
Nel secolo XIX si segnalano Bortolo, che ricoprì la carica di presidente e sindaco della Congregazione di Carità, e numerosi sacerdoti e religiose, che costituirono un vanto per la famiglia. Figli di Bortolo e di Graziosa Zanaglio sono Faustino Pio, Annunciata, Santa Maria, Caterina, Angela, Faustino e Maria. Quest’ultima prende i voti nella congregazione delle Ancelle della Carità assumendo il nome di Andreina. Insegnò e si dedicò all’assistenza dei malati a Piazzatorre, a Mantova e a Pergine; proprio da quest’ultimo luogo, durante la Prima Guerra Mondiale, sarà deportata dagli Austriaci nel carcere di Stanning in Boemia. Dal carcere tornò in precarie condizioni di salute; fu vicaria a Mantova ove morì nel 1922.

Faustino Pelizzari
Faustino (1878-1956), dopo aver ricevuto una formazione improntata allo studio delle lettere classiche e dell’amministrazione, militò fin da giovane nel movimento cattolico, a ventidue anni fu nominato sindaco di Bagolino. Durante il suo mandato realizzò numerose opere come il ponte e la strada di Val Dorizzo e fondò l’asilo, del quale fu amministratore per cinquant’anni. Fu inoltre presidente della Cassa Rurale. Nel luglio del 1905 fu eletto consigliere provinciale per il mandamento Vestone, Bagolino e Preseglie. Nel consiglio rimase fino al 1924.
Con il senatore Angelo Passerini sostenne un piano di sviluppo della Valsabbia; di questo suo impegno abbiamo lo studio di fattibilità, scritto insieme ai sindaci dell’alta val Trompia: Per un’elettrovia Brescia, Valtrompia, Giudicarie, Trento – Le risorse minerarie dei bacini alto Mella e Caffaro, a cura dei Comuni dell’Alta Valtrompia e Bagolino, proposta concreta per colmare l’isolamento logistico ed economico di alcuni comuni della valle e costituire una dorsale di collegamento tra Brescia e Trento.
Nel 1907 promosse un comitato per costituire una Società Pro Bagolino; per molti anni fu membro della fabbriceria della parrocchiale di San Giorgio di Bagolino.
Collaboratore diretto di Giorgio Montini fece parte di un’agguerrita avanguardia di cattolici impegnati in Valsabbia in campo amministrativo e politico. A Bagolino fu fondatore della sezione del Partito Popolare Italiano. Nel maggio del 1919 entrò a far parte della commissione provvisoria per la promozione del P.P.I. in Valsabbia. Collaborò con Il Cittadino di Brescia e fece parte di organismi diocesani.
Nell’agosto del 1926 si trasferì con la famiglia a Brescia per fare fronte ai nuovi incarichi cittadini. Da anni presidente della Piccola Banca S. Pietro di Nozza fu promotore della fusione di questa con la Banca S. Paolo di Brescia. All’interno dell’Istituto di credito venne nominato Sindaco supplente, consigliere d’amministrazione e vicepresidente, carica che ricoprì fino alla sua morte nel 1956.
Fu inoltre nominato cavaliere dell’Ordine Equestre Pontificio di San Silvestro e cavaliere, poi commendatore, del Regno d’Italia. Fu anche presidente per 35 anni della Casa di salute Moro, per la quale si prodigò per la sua ricostruzione dopo i danni subiti nel bombardamento del 1944. Nel 1909 sposò Caterina Regis, da cui ebbe numerosi figli: primogenito l’avvocato Claudio, che partecipò come ufficiale alla campagna di Grecia e a quella di Russia nel VI alpini; egli, una volta rientrato in patria, prese parte alla Resistenza.
Finito il conflitto fu stretto collaboratore del Prefetto della Liberazione avvocato Pietro Bulloni e insieme al fratello avvocato Silvio, al cavalier Pier Giuseppe Beretta e al conte Eros Compagnucci Compagnoni, capitano in forza al Patriot Branch, fu tra i fondatori del Movimento Unionista Europeo (M.U.E) alla fine del 1945 con sede a Brescia. Il Movimento aveva la finalità statutaria di impegnarsi per la costituzione degli Stati Uniti d’Europa, precorrendo quella che oggi è l’Unione Europea. Oltre all’avvocato Claudio si ricordano il dottor Guido, medico, primario dell’ospedale psichiatrico provinciale di Brescia, Graziosa, l’avvocato Silvio, Michelangelo (detto Michele), il ragioner Franco e il geometra Diego.
Silvio Pelizzari
Per l’attività a favore della comunità di Bagolino e della città di Brescia si ricorda particolarmente Silvio (1916-1994). Da giovane partecipò attivamente alla vita bagolinese, fece parte della Schola Cantorum e fu regista e attore della Filodrammatica. Si laureò in Giurisprudenza a Pavia. Arruolato negli Alpini partecipò attivamente alla Resistenza, nelle fila di Giustizia e Libertà ricoprendo la carica di comandante della Brigata Monte Suello dal giugno del 1944.
Nel febbraio del ’45 si spostò a Brescia in seguito all’arresto del padre e del fratello minore per rappresaglia da parte del presidio fascista di Anfo. A Liberazione avvenuta fu membro attivo nell’opera di disarmo delle brigate partigiane in qualità di membro del Patriot Branch.
Fu presidente dell’Ente Comunale di Assistenza (ECA) dal 1948 al 1970 e della Casa di Salute Moro dal 1956 fino alla morte, subentrando al padre. Molto egli fece durante la sua presidenza all’ECA: l’istituzione del premio della bontà Pietro Bulloni nel 1951, la ristrutturazione dell’Istituto Arici Sega, del ricovero Casa d’Industria e l’edificazione di Villa Elisa.

Nel 1951 sposò Gabriella Martinoni Caleppio. Dal 1951 al 1987 fu Direttore amministrativo del Giornale di Brescia e dell’Editoriale Bresciana. Durante la sua direzione venne edificata la nuova sede di via Saffi del Giornale di Brescia e vennero aggiornati i sistemi di stampa. Promosse e coordinò con il Giornale di Brescia le iniziative di soccorso a favore delle popolazioni colpite dal disastro del Vajont nel 1963, dai terremoti del Belice nel 1968, del Friuli nel 1976 con la costruzione del Villaggio Brescia a Buia e dell’Irpinia nel 1980.
Fece parte degli Organi societari dell’ANSA – Agenzia Nazionale Stampa Associata prima come sindaco effettivo (1957) poi come Consigliere (fino al 1993) diventandone per alcuni mandati Vice Presidente e della FIEG – Federazione Italiana Editori Giornali, dove operò nel Comitato Esecutivo.
Amico ed estimatore di Arturo Benedetti Michelangeli fin dagli esordi fu chiamato a svolgere l’attività, per oltre un decennio, nel Comitato Esecutivo bresciano del Festival Pianistico Internazionale nato nel 1964 come omaggio al Maestro in occasione dei suoi 25 anni di insegnamento, e diventato un positivo esempio di collaborazione organizzativa ed artistica tra le due città di Brescia e di Bergamo. Nel 1965 ricoprì il ruolo di direttore amministrativo all’interno del Comitato organizzatore della prima grande mostra del Romanino realizzata a Brescia.
In rapporto di familiarità con il professor Vittorino Chizzolini, ne sostenne la creativa e geniale carità pedagogica, favorendo la nascita, nel 1965, della “Famiglia Universitaria Cardinale Bevilacqua” con la concessione, per la sede dell’istituzione, dei locali di via Veronica Gambara 15 di proprietà dell’E.C.A.
A Bagolino fu per 16 anni Presidente della Casa di riposo S. Giuseppe, che ristrutturò completamente e in contemporanea promosse un’importante ricerca storica sulla Beata Lucia Versa Dalumi curata da don Antonio Fappani. Sempre a Bagolino realizzò un moderno caseificio per la valorizzazione del formaggio “bagoss” e fu fautore insieme all’ingegner Franco Faroni della costruzione della strada del Maniva. Fu inoltre tra i promotori e presidente della “Famìa bagossa”. Risulta anche tra i primi fautori per il restauro della Rocca d’Anfo.
Nel 1981 l’Associazione Nazionale Alpini si interrogava su quale fosse il monumento per celebrare più degnamente i caduti della battaglia di Nikolajewka. Forte del suo solido rapporto con le Penne Nere, Silvio Pelizzari, facendo sintesi dell’esigenza di poter disporre di una struttura in grado di supportare le fragilità dei malati spastici e miodistrofici e delle loro famiglie, propose agli Alpini di realizzare a Mompiano la sede della Cooperativa “Scuola di Mestieri per Spastici e Miodistrofici”, divenuta poi Cooperativa Nikolajewka, come monumento nazionale ai caduti della battaglia.
Con l’approvazione dei capigruppo delle sezioni di Brescia e della Provincia, con il grande slancio di tutte le Penne Nere, grazie all’importante contributo a fondo perduto della CARIPLO, alla pubblica sottoscrizione indetta dal Giornale di Brescia, all’ingegner Giancarlo Faroni, che realizzò gratuitamente il progetto, al grande impegno del presidente della cooperativa cavalier Gerolamo Treccani, dei consiglieri, fu costruita ed inaugurata nel gennaio 1983 la Cooperativa Nikolajewka, edificio di 2900 m² coperti, sede di laboratori artigianali, culturali e di alloggi residenziali assistiti, che ha avuto negli anni un ulteriore importante sviluppo e che da allora è una realtà di riferimento nel settore assistenziale.
INNOCENTE BARESI

Sacerdote, nato a Gavardo nel 1929 in una famiglia già molto numerosa e profondamente devota. È il sesto di tredici fratelli, tre dei quali seguono la vocazione religiosa: Gian Pietro è missionario comboniano; Margherita è suora e parte, anche lei missionaria, per l’Africa; Innocente è ordinato sacerdote nel 1953 e subito inviato come curato a Bagolino.
È giovane, energico e dotato di una intensa sensibilità pastorale, che lo conduce a prendersi particolare cura dell’educazione e dell’istruzione dei ragazzi di Bagolino che a quell’epoca, gli anni del dopoguerra, era ancora afflitto dalla povertà.
Insegna i principi cristiani con l’esempio, piuttosto che con pomposi discorsi: è una sua abitudine condurre con sé il chierichetto nelle visite mattutine ai parrocchiani, per la comunione ai malati. A conclusione del giro lo invita in canonica per una tazza di caffelatte che forse a casa non ha bevuto, forse non c’è nessuna colazione per lui dopo il risveglio e prima di avventurarsi nel freddo al seguito del curato.
Ricorda il bambino di allora, il chierichetto: «Io sentivo l’immenso piacere della sua gioia di dare, ed è forse da quei momenti che ho imparato quanto fosse grande il bene di condividere».
Il bene e il male, l’amore e la carità: i bambini imparano presto, se don Innocente li tiene vicini, parla e racconta, esorta e rimprovera. «Noi ragazzi e ragazze eravamo seguiti da don Innocente Baresi, ricorda suor Anna Maria Melzani, che era il nostro parroco e direttore spirituale».
Anche nella famiglia di Anna Maria le vocazioni religiose mettono radici grazie al curato: «Un giorno papà ci disse che il giorno seguente sarebbe venuto don Innocente a parlare a tutta la famiglia. Sorpresa: don Innocente ci comunicò che mia sorella Maria entrava nelle suore comboniane».
Nei suoi dieci anni a Bagolino il curato don Innocente ha seminato così tanto da essere ricordato oltre mezzo secolo dopo con affetto e citato come compagno di giochi e precettore severo.
Nel 1963 è trasferito a Treviso bresciano, dove sarà parroco fin al 1980. Poi per altri 25 anni guiderà la parrocchia di Sabbio Chiese. Muore nel 2013 a Gavardo, suo paese natale, compianto da tanti che l’hanno conosciuto e da tutti i bambini che hanno imparato da lui «la gioia di dare».
Richieste dalla comunità di Sabbio Chiese, nel novembre 2022, le sue spoglie sono portate nel cimitero del paese.
ANTONIO STAGNOLI
Nasce a Bagolino nel 1922 e la sua infanzia è segnata dalle avversità: a due anni e mezzo perde l’udito a causa di un’insolazione che lo colpisce mentre è al pascolo, e non può imparare a parlare. A sei anni perde il padre, vittima di un incidente mentre lavora alla costruzione della centrale idroelettrica del Gaver; ha dodici anni quando viene a mancare anche la madre.
A otto anni era stato consegnato al Pio Istituto Pavoni di Brescia, specializzato nell’insegnamento ai sordomuti, dove prende la licenza elementare.
Il suo destino sembra segnato, e invece lo spirito di osservazione e un inaspettato talento gli regalano una via d’uscita da un’invalidità inerte: impara il disegno, osserva e crea con tratti precisi, alla ricerca di uno stile e attingendo all’ispirazione delle sue montagne e dei suoi montanari. «Bagolino, la valle del Caffaro, la valle Sabbia con il loro piccolo universo umano hanno continuato a essere la parte privilegiata dell’ispirazione dell’artista» nota Alfredo Bonomi, profondo conoscitore della storia e delle arti valligiane.
Come l’infanzia, anche la sua giovinezza sembra compromessa dalla povertà di mezzi. Riesce però a entrare nel 1950 all’Accademia di Brera a Milano. Ha ventotto anni, non può pagarsi né vitto né alloggio, attraversa un deserto di privazioni e sofferenza, sostenuto da un carattere tenace, dalla sicura vocazione e aiutato da generosi e capaci insegnanti.
Nel 1957 espone le opere alla mostra «Arte bresciana del nostro tempo» che si tiene a Gargnano; nel 1962 ottiene il primo premio «Città di Milano» destinato a giovani artisti lombardi. Si fa conoscere e apprezzare, seguono altre mostre e Stagnoli entra in un orizzonte più grande: nel 1961 a San Diego, nel 1963 a Francoforte, nel 1965 alla Quadriennale di Roma e nel 1992 al palazzo Reale di Milano, nel 1985 partecipa a una mostra itinerante in Ungheria, nel 1995 a Novosibirsk e a molte altre, grazie a un’applicazione incessante alla sua pittura.
La sua pittura e la sua vicenda personale sono raccontati nel documentario Fantasmi di voce, firmato da Elisabetta Sgarbi e presentato alla sessantesima edizione della Mostra del cinema di Venezia. Nel 2011 espone alla Biennale di Venezia.
L’«artista silenzioso», dal disegno preciso, dai personaggi affaticati, dalle scene sofferte, acquista una grande reputazione e un profondo rispetto per le difficili battaglie che ha sostenuto.

È un uomo attento ai suoi simili, che dipinge; è un uomo di calda simpatia, che può conversare con intelligenza, calore e ironia nel suo particolare linguaggio. È amatissimo, e non soltanto a Bagolino, perché si è costruito amicizie nel mondo.
La sua pala della Madonna del Rosario, composta di quindici tavole, campeggia nella chiesa di San Rocco a Bagolino. Secondo Mario Pancera, l’opera è «non lontano per fede e potenza dalla giustamente conclamata crocifissione di Matthias Grünewald nel chiostro di Isenheim». In effetti la raffigurazione del dolore, della fatica di vivere, del destino umano di sofferenza è presente nell’opera di Stagnoli, come un soggetto vissuto e più che mai profondamente sentito. Muore a Bagolino, grandemente rimpianto, il 24 ottobre 2015.
Gli è stato reso omaggio in occasione del centenario della nascita nel 2023 (posticipato di un anno a causa delle restrizioni della pandemia) in valle Sabbia con tre mostre: a Vestone dal titolo “Le opere e i giorni”; a Sabbio Chiese “Intrecci di sguardi e di natura”; a Bagolino “Dalla formazione all’affermazione”. Le esposizioni ripercorrevano passo dopo passo la sua ricerca espressiva, sempre ispirata a quel «piccolo universo umano» che ha accompagnato le sue visioni, tanto più acute perché avvolte nel silenzio.