
IL LAGO D’IDRO



È il più piccolo dei grandi laghi alpini, un fratello minore per dimensioni, ma dotato di una particolare bellezza, che a volte è malinconica e a volte luminosa. La vita che ha creato intorno a sé non ha il lusso o la gloria dei grandi laghi confratelli, ma è sobria e accogliente. Si vedono intorno alle sue acque i frutti della fatica umana, della fede, dell’ostinazione a fare meglio e di più. Sono i caratteri della popolazione di queste montagne.
Il lago d’Idro manifesta i suoi umori, diventa grigio scuro e opaco nel maltempo ma ritrova un azzurro cupo e scintillante nel pieno dell’estate.
La riva settentrionale, che fa parte dell’ecomuseo della valle del Caffaro, ha una storia speciale. È la vicenda della bonifica del pian d’Oneda e dell’operosità degli abitanti di Ponte Caffaro dall’Ottocento a oggi.
Per questo là dove non c’era che fango e incertezza, alluvioni e malaria, ora si stende un luogo ben più ameno, tale da attirare il turismo con le sue attività sportive, le passeggiate, i lunghi pranzi al sole.
La riva del pian d’Oneda ospita le barche e la pesca, i viaggi in battello che toccano ogni borgo che si affaccia sulle sue rive. A differenza del passato, questa riva è ora mossa e piena di vita nella bella stagione, ben diversa da sé stessa al tempo delle campagne risorgimentali, quando incuteva timore per il suo silenzio e l’ombra delle montagne che lo circondano.

Ne erano stupefatti i giovani volontari accorsi a combattere al confine con l’Austria. Così lo vedeva uno di loro, il ticinese Giuseppe Maraini nella notte tra il 23 e il 24 giugno 1866 al chiaro di luna: «Un lago selvaggio e tetro, un solo paesello ne rallegra le sponde, di rado qualche barca ne solca l’onda; monti scoscesi e selvaggi lo circondano nella maggior parte. Veggonsi gli avanzi d’antiche castella».
Negli stessi giorni il volontario in camicia rossa Eugenio Checchi, arrivato esausto al lago dopo una lunga marcia osserva invece i compagni sparpagliarsi «in tutte le parti, spinti dalla curiosità delle cose belle e nuove, molti anche (e io pure fui della compagnia) si bagnarono nel lago, cantammo, ci bisticciammo, facemmo il diavolo a quattro. Quel sorriso delle acque, della terra e del cielo pareva ci ringagliardisse, e ritemprasse la nostra fibra già stanca delle lunghissime e di rado interrotte camminate». Qualcuno vuol dimostrarsi audace come in combattimento, racconta Checchi, e «molti garibaldini fecero scommessa di traversarlo a nuoto e ci riuscirono».
Il baitì
La riva settentrionale del lago d’Idro, dove il Caffaro e il Chiese immettono le loro acque, porta i segni della vita quotidiana nei tempi passati: si vedono i canali scavati a forza di braccia per far defluire le acque al tempo della bonifica.
Si vede il baitì, poco più di una capanna e poco meno di una casetta, che racconta di una famiglia che ricavava di che vivere dalla pesca.
È la proprietà di Giordano e Celeste Fenoli, costruita nel 1934 e ben conservata.
Non è soltanto un magazzino per gli attrezzi, come le reti o i remi, ma un ricovero per la notte quando i pescatori, moglie e marito, uscivano la sera in barca a gettare le reti e lì dormivano, riscaldati dal focolare d’inverno, fino a prima dell’alba, quando le ritiravano.
Giordano, nato nel 1920, aveva imparato a pescare fin da quando aveva dieci anni, tra i primi caffaresi a intraprendere questa attività.
Il lago è ricco di varie specie di acqua dolce, dal luccio al coregone, dalla tinca al persico, e delle «belle trote rosee del lago d’Idro» citate da Camillo Boito nel racconto Macchia grigia.

