Ecomuseo Valle del Caffaro

Chiesa di San Giorgio

La Chiesa di San Giorgio
LA STORIA

I lavori subirono un rallentamento durante la peste del 1630, così la chiesa, nonostante fosse affrescata da Palma il Giovane in alcune parti della navata e certi altari fossero già collocati, presentava ancora la volta del presbiterio e il catino absidale incompiuti. I lavori proseguirono dopo la peste, usando del materiale che doveva essere trasportato da Condino, e nel 1636 la chiesa fu completamente terminata. Ripresero così a lavorarvi pittori e affrescatori per completare la decorazione. Il “Duomo” di Bagolino sovrasta dall’alto il paese che sembra tutto raccolto ai suoi piedi a semicerchio (le due estremità del cerchio si ingrossano e formano i due quartieri: Visnà dallaparte destra della chiesa e Cvril dalla parte sinistra). La facciata, massiccia, è a capanna adornata da semplici graffiti, interrotta solo da una semplicissima trifora e scandita da un elegante pronao formato da sette archi che danno un suggestivo effeto di pieno nella parte alta e di vuoto nell’inferiore. Probabilmente si risente nel gusto l’influenza di Venezia. Il materiale e la mano d’opera per la costruzione del portico sono stati forniti dalla famiglia Versa. Si legge sul basamento della lesena dell’arco di accesso di sinistra del pronao: MARTI + VERSA – F. SVO – FILIOL? – DA – B. Gli stessi Versa donarono contemporaneamente il portale di sinistra. Il campanile innalzato nel 1681 ne sostituisce uno precedente che sorgeva a fianco dell’entrata di destra e termina con una cupola che appoggia sopra un tamburo ottagonale. Da dipinti anonimi e del Moreschi si vede che la cima terminava con un’alta guglia, distrutta probabilmente dall’incendio del 1779.

L’INTERNO

L’interno si presenta come un grande vano a botte liscia illuminato da otto finestroni semicircolari corrispondenti alle otto cappelle laterali, quattro per lato, intervallate da doppie lesene che contribuiscono a dare una sensazione di maggiore altezza, ciò che altrimenti mancherebbe in una chiesa a vano-unico con volta a botte. Il presbiterio anch’esso coperto a botte, ma più basso, si conclude con un’abside semicilindrica che all’esterno si presenta poligonale. Si hanno contemporaneamente una sensazionedi vasto e monumentale, accentuata anche dalle quadrature architettoniche di Sandrini e Viviani, e una sensazione di raccoglimento e sacro, creata dall’unica navata e dagli alti nicchioni laterali. Senzazioni tipiche di centralità e di maestosità post tridentine e secentesche. Infatti la prepositurale di Bagolino rientra nelle numerose chiese costuite nella provincia bresciana nel ‘600 che seguono lo schema composito e strutturale delle chiese del tardo ‘500 cioè a vano unico e volta a botte, diffusosi dopo il Concilio di Trento.

GLI AFFRESCHI

Notiamo immediatamente la volta affrescata, secondo il gusto e le strutture tipiche del XVII sec., di cui Tommaso Sandrini (1575 – 1630), caposcuola delle quadrature in Brescia, è l’autore. Con straordinaria bravura egli riuscì a creare una perfetta illusione ottica così da raddopiare l’altezza della navata incorporando gli otto finestroni. Le colonne delle logge appoggiate su mensole sembrano continuare le lesene delle pareti e aumentano così la sensazione verticaale ella navata. Camillo Rama (1585 – 1630?) è l’autore degli affreschi inseriti nelle quadrature. Nella prima è raffigurato il martirio di S. Vigilio vescovo di Trento; nella seconda la gloria della Vergine Maria. Queste due, affollate di personaggi bloccati in atteggiamenti stereotipati, non sono preferibili al terzo medaglione, sempre dello stesso autore dove la tragica e semplice scena di S. Giorgioche uccide il drago è, al contrario, dinamica. L’ultima scen: la Sacra Famiglia, fu aggiunta da Gaetano Cresseri durante i restauri del 1898. Sempre il rama, alunno di Palma il Giovane, continuò l’opera affrescando i restanti nicchioni e le scene dell’esodo situate tra le doppie lesene. Nel primo nicchione di destra troviamo l’altare di legno più sobrio di tutta la chisa, formato da tre piani; la mensa vera e propria, un’alzata che incorpora due quadri di piccole dimensioni (S. Angela Merici e la beata Versa Da Lumi) e un altro basamento sul quale poggiano due colonne tortili che sostengono una trabeazione adornata da tre angioletti; La soasa, come la tela, doveva essere senz’altro già nella chiesa precedente, La tela, S. Agostino e S. Monica con la Vergine e il Bambino, è sempre stata attribuita a Pietro Ricchi, detto il Lucchese, però da un serio confronto con le opere di questo autore presenti a Bagolino e nella provincia, l’attribuzione risulta insostenibile. Fappani l’attribuisce a Pietro Marone, al quale rimandano parecchie caratteristiche: il manierismo, tipico nel bresciao a cavallo tra il XVI e XVII sec., e i colori di gusto veneto. Nel secondo nicchione di destra, in un altare ligneo barocco, troviamo inserito un quadro: S. Lorenzo tra S. Giovanni battista e S. Pietro, attribuito a Francesco Torbido. L’altare testimonia in maniera chiara il gusto per secentesco dell'”horror vacui”; infatti non esiste un piano liscio ma tutta la composizione e persino le colonne sono arricchite di motivi floreali (nastri, ghirigori), tanto che a malapena si intravedono i tre angioletti che fingono di sorreggere il quadro e gli altri nove e le tre testine inseriti nell’esuberanza soasa. Deliziose figurette negli intrecci sono l’omino con le larghe “braghe” secentesche, a destra, e la donna con la collanina di coralli rossi (tipica tra le nostre contadine) a sinistra, nella parte bassa della soasa. In una scritta posta in alto si leggono l’anno 1662, e il nome del committente. L’attribuzione a Torbido non fu molto facile, anche se già il Vasari ne parlava: “… e fece (Torbido) una tavola che fu portata a Bagolino, terra delle montagne di Brescia”. In seguito, forse per un errore di trascrizione, e confondendolo con il soprannome del pittore, il Da Pozzo lo assegnò a Battista del Moro, genero e allievo del Torbido soprannominato, appunto, il Moro. Ma il volto di S. Pietro assorto nella lettura è tra gli esempi più felici della ritrattistica del Torbido, una specialità nella quale era particolarmente aprezzato. Questo dipinto, caldo e luminoso nel colore, è databile tra il 1525 e il 1530; non è ancora rotto infatti dalle cadenze manieristiche di Giulio Romano, che influenzò più tardi il pittore. Il Torbido fu eclettico, aperto alle più varie suggestioni; in questo quadro si riscontra l’influsso del latti negli angeli e del Giorgione nella calma tranquillià dei personaggi, sottolineata dai colori tipici della scuola veneta, ma qui il gusto, il canone delle figure è un pò rozzo, più provinciale. Ai lati dell’altare, sulle pareti del nicchione, spiccano le figure affrescate di S. Geronimo e S. Ilarione e le allegorie della Carità, Fede e Speranza, sicuramente attribuibili a Palma il Giovane che lavorò pure agli affreschi del nicchione di sinistra (S. Anna e S. Gioaccihno, le storie di Giuditta e Oloferne). Purtroppo l’artista non potè completare la sua opera dato che morì un anno dopo il termine della costruzione della chiesa e venne sostituito da Camillo Rama. Le belle figure dei Santi, proporzionate e illuminate dalla tipica luce di Palma il Giovane, non possono minimamente essere accostate alle goffe e bloccate figure affrescate nei restanti nicchioni.
Tra il secondo e terzo nicchione si trova un pulpito con bassorilievo raffigurante Cristo che predica alla folla, opera di un anonimo intagliatore del ‘600. L’opera anche se criticabile per la sproporzione delle figure, il groviglio dei personaggi, le loro teste grosse, ricorda l’ingenua freschezza dell’opera dei Naifs. La tradizione vuole che il viso del Cristo sia il ritratto del padre Borra che predicò nella Quaresima del 1624.
Nel 3° nicchione vediamo una soasa barocca: in alto campeggiano quattro angioletti che terminano la soasa formata da due robuste e ricche colonne. La tela centrale, trasportata dalla chiesa di S. Lorenzo nel 1804 e adattata all’altare (perdendo la sua forma centinata con l’aggiunta di due strisce ai lati) rappresenta la Sacra Famiglia con S. Rocco, S. Aniano, S. Marco e S. Sebastiano. L’autore è Pietro Rosa, allievo del Tiziano ma per il suo eclettismo questo quadro fu per parecchio tempo attribuito a diversi pittori. Nel dipinto si vede S. Marco che chiama dal dischetto di calzolaio S. Aniano; da notare la semplice ma efficace natura morta del dischetto, raffigurato con tutti gli attrezzi che mostra una tipica impronta di pittura bresciana. Affiancano la scena S. Sebastiano a destra e S. Rocco a sinistra. In alto la Sacra Famiglia è di impronta tizianesca. Nella base delle due colonne due quadretti: a sinistra S. Gaetano, a destra la B. Orsola che non hanno un grande valore artistico e probabilmente sono opera di Bernardino Boni, pittore bresciano del ‘700.
L’altare di stucco e marmo del 4° nicchione è semplice, arricchito nella parte superiore da due angioletti che indicano la lapide posta al centro del timpano. Vi campeggia la tela che raffigura Cristo risorto tra Santi, opera di Giacomo Barbello (sul cartiglio che esce dal libro in basso a sinistra si legge: “G. JACOBUS BARBELLUS CREMENSIS PINGEBAT 1643”). La luce è particolarissima e si differenzia da quella che abbiamo visto nelle altre tele: qui è protagonista; cadendo dall’alto forma i panneggi e le figure e mette in risalto i colori tenui ma efficaci dei manti. Questi dimostra la provenienza dell’artista dalla scuola bolognese.
L’organo, posto in cantoria “in cornu epistolae”, è opera dei fratelli Serassi, la più importante famiglia di organi lombardi operanti nel XVIII e XIX sec. e sostituì quello degli Antegnati (fine ‘500) che fu gravemente rovinato dall’ncendio del 1779.
Le quadrature della volta dell’abside e del presbiterio furono eseguite da Ottavio Viviani, dopo la morte dei precedenti artisti a causa della peste del 1630. L’incoronazione di Maria Vergine è del Lucchese ed è ben inserita nelle quadrature barocche. Anche questi affreschi furono danneggiati dall’incendio dell’organo e, nel restauro del 1890 hanno perso in gravità e solennità.
L’altare maggiore, opera dell’abate Gaspare Turbini, è maestoso ed elegante grazie al verde antico del marmo sottolineato da quello bianco e impreziosito dai bronzi dorati (1794 – 99). La pala fu, come si legge in basso, donata nel 1703 dal rev. Andrea buccio al pittore Andrea Celesti; rappresenta in alto la SS: Trinità e sotto S. Giorgio che uccide il drago. Interessante il confronto fra questa scena e quella affrescata da C. Rama nella volta. Nell’affresco secenteco vi è movimento, i colori sono cupi ed oltre i personaggi essenziali vi è solo un tocco macabro negli scheletri sparsi sul terreno. Nel quadro del Celesti i personaggi sono più numerosi: in alto la SS. Trinità, in basso S. Giorgio che non si cura più del drago, già ferito, la tipica dama del ‘700 non è molto turbata dalla presenza del mostro e un putto regge lo scudo. Sullo sfondo un arioso e bel paesaggio, crea un’aria quasi irreale e gioiosa.
Non sempre esposto è un paliotto con 8 Santi, la Vergine con S. Rocco e S. Antonio tra motivi floreali. L’opera è formata da rettangoli di cuoio cuciti assieme. L’autore è probabilmente del posto, visto il materiale grezzo usato e l’ingenuità della composizione, però si tratta di una valida testimonianza di arte popolare.
Nel 4° nicchione di sinistra perfettamente inserita in un altare di stucco e marmo, c’è una crocifissione lignea. Al cemtro, su un cielo cupo, spicca una croce con la bella e proporzionata figura del Cristo. Il Crocifisso coòposto e curato nei particolari contrasta con le altre statue che stanno ai piedi della croce; qui i visi sono gonfi, deformi, bloccati in una smorfia di dolore, forse per sottolineare la differenza tra la pace del Cristo e la perturbabilità e la passione degli uomini. Tale differenza è probabilmente casuale dato che gli autori sono diversi: inftti le figure tozze, le mani grosse, i capelli molto più mossi dei tre fedeli, ricordano le figure trentine, non si avvicinano alla perfezione del corpo del Cristo, modellato con gusto e armonia rinascimentali.
Nella cimasa troviamo un quadretto del Lucchese raffigurante S. Michele che libera le anime del Purgatorio.
Il 3° nicchione di sinistra racchiude più opere: vi è collocata la Madonna di S. Luca, l’altare è detto anche del S. Rosario perché la pala è circondata dai 15 misteri. Le pareti affrescate da Palma il Giovae. La soasa è il capolavoro di Giacomo Faustini, intagliatore della bassa bresciana e non può reggere il confronto con i Boscaì, più validi e famosi suoi contemporanei. Due eleganti statue che reggono senza sforzo una ricca e elaborata cimasa, sono appoggiate su alti plinti, affiancati da dua angeli; il tutto è sostenuto da altre cariatidi in posa sforzata oppure inginocchiate, accostate da due figurette danzanti in bassorilievo, rivolte verso l’immagine della Madonna di S. Luca. Al centro c’è la tela del Gandino, inserita in quadretti dipinti sulla stessa tela, ognun con la sua cornice, raffiguranti i misteri del rosario. Nell aparte bassa un affollamento di personaggi nella processione che si snoda tra le due figure di S. Domenico e S. Caterina. La leggenda racconta che il quadro della Madona di S. Luca fu preso nel castello dei conti di Lodrone, distrutto durante una ribellione dei bagossi, ma il quadro continuava a tornare al suo posto primitivo e solo dopo una solenne processione rimase nella chiesa di S. Giorgio. La tavola è opera di uno dei “madonnari” che stabilitisi, a Venezia, tramandarono per parecchi secoli questo tipo di pittura (dal XIV al XIX sec.). G. Panazza colloca questo quadro tra la fine del XV sec. e l’inizio del XVI, definendo l’opera “uno dei più raffinati esemplari prodotti in questo campo”. La tavola originale comunque viene scoperta ogni cinque anni con solenni cerimomie e quella che si vede è solo una copia.
Nel secondo nicchione di sinistra, trasportato nel 1804 da S. Rocco e inserito in una semplice soasa secentesca, troviamo una tela, attribuita al Tintoretto, che rappresenta in alto la SS. Trinità, al centro S. Basilio attorniato da S. Sebastiano, S. Bernardo, S. Marco e S. Rocco, tutti illuminati dalla luce emanata dalla SS. Trinità. Il quadro è discusso: dallo Zenucchini è attribuito al Tintoretto (gli fu commissionato nel 1585 dai massari di S. Rocco di Bagolino);, la Zanetti invece lo fa iniziare dal Tintoretto e concludere da Marco Pellegrino, suo migliore allievo; il Panazza nomina solo Marco Pellegrino. Probabilmente il quadro è nato sotto la direzione del maestro e suoi dovrebbero essere i bozzetti prepartori.
Nel 1° nicchione di sinistra, sempre in una soasa secentesca, troviamo una tela di Camillo Rama. Le tre figure, S. Carlo, S. Domenico e S. Lorenzo, vivono in forma propria su uno sfondo unicolore che sottolinea maggiormente la loro solitudine.
Nella parete di fondo, sopra la porta principale, c’è un enorme quadro (60mq), di Pietro Marone, che originariamente si trivava nel refettorio dei canonici regolari della parrocchia di S. Giovanni a Brescia, e venne portata qui nel 1804 (il monastero era stato soppresso nel 1784). In questa tela è chiarissima l’influenza del Veronese; a lui rimandano la scena del convito inserita in un ambiente architettonico, la concezione gioiosa, il colore limpido, l’accostamento delle tinte semplici e naturali.

Cappella di Sant’Antonio

Sotto la sacrestia di sinistra si può vedere la cappella dedicata ai santi Filippo Neri e Antonio da Padova.
Interessanti sono gli affreschi della volta.
Ricca e armonica è la soasa dell’unico altare che racchiude una tela con i due Santi e la Vergine, firmata A.R.